Fin dall'infanzia colto da insana passione per il disegno, persevera su questa strada e, allo scadere del "cinquantino", si decide ad organizzare la prima mostra.
L'attività pittorica, negli anni, è stata incostante ma continua e un ruolo di primo piano nel farlo continuare e, soprattutto negli ultimi tempi, ad intensificare l'attività, lo ha svolto la cara zia Elvira Cassa Salvi (famosa a questo proposito la frase “tu sei un bestione devi dipingere di più” che la zia disse una volta con fervore allo stupito nipote). In verità all'inizio il Nostro non dava molto retta alla cara zia, pensando ad una famigliare benevolenza, ma, col tempo, forse perché il tarlo della pittura era entrato in una più profonda area cerebrale, ha finito con il darle retta.
Avrà fatto bene? Come si dice: "Ai posteri l'ardua sentenza".
Le opere del Nostro sono tutte dipinte con colori ad olio, usati così come escono dal tubetto, senza nessuna diluizione o trattamento; le più recenti sono eseguite con una tecnica più materica che in passato, stendendo successive stratificazioni di colore.
Il punto di partenza è, in genere, una fotografia scattata con l'intento di essere a questo scopo utilizzata, ma, come ha già detto elegantemente l'Autore nelle note del catalogo della mostra “Suggestioni parallele”, l'immagine iniziale è spesso stravolta.
Una nota sulle fotografie: sono scattate solitamente durante escursioni a piedi o con gli sci e in bicicletta; come il Nostro spesso dice "dalla bici e dagli sci si ha una prospettiva diversa".
C’è un grande silenzio, calmo, sereno, nei lavori di Tita Secchi Villa, come se fossero chiamati a dare un giudizio morale sull’altra Italia, rumorosa, caotica, massificata e consumistica, dove la vita di ciascuno non riguarda più nessuno. L’etica è nella ricerca senza fronzoli di un’arte della luce come nettezza, pulizia e precisione, inseguendo tutto ciò che sembri in armonia con l’uomo nelle escursioni in montagna, nei viaggi in bicicletta nel Nord Europa, nelle case dell’abitare quotidiano, magari quella della nonna in campagna. Una misura scarna, linda e chiara di saggezza attaccata anche a volti, a gesti, a cose essenziali. (>>> clicca per espandere/ridurre il testo)
Quello che conta per l’artista è lo stare vicino alla natura tenendosi al nocciolo duro di una moralità e di un modo di vivere che valgono per i tanti habitat (solenni pareti di roccia, ma anche piccolissimi microcosmi) di cui si compone il più generale habitat dell’uomo. Il paesaggio della montagna, ad esempio, è spogliato di tutti i particolari inutili, in una sapienza cresciuta sull’esperienza, sul misurare le proprie forze, i propri passi, le proprie sciate, le proprie pedalate, in una faticosa ma non spericolata conquista, grata di quello che la natura offre intorno, come se saggiasse la solidarietà duramente costruita tra gli uomini e l’ambiente. Tita Secchi Villa muove sempre dalla fotografia (anche dalla banale foto-ricordo) per ricavare dipinti densi di colore e di luci radenti che parrebbero realizzati in spirito semplice, quando non candido e ingenuo, impregnati sempre d’atmosfera fantastica, visionaria. Ma quella dei naives è una pittura legata ad una necessità fisica di espressione, un mezzo per sentirsi vivi e fuggire l’emarginazione. La ricerca di semplicità, in spirito di scoperta e d’essenzialità pionieristica, è invece una filosofia quanto mai consapevole di essere al mondo nata quando l’ambiente intorno, nella crescita onnivora del paesaggio metropolitano e industriale, è apparso arido, corrotto, inumano.
Per Tita Secchi Villa è ancora il sogno, fondato nell’intelligenza europea da Jean Jacques Rousseau nel lontano Secondo ‘700, di una nuova “età dell’oro”, di un luogo aspro e virtuoso scaturito dalla sorgente purificatrice della vita in armonia con la natura. Rousseau, creando il mito delle Alpi incontaminate, aveva scritto nella “Nuova Eloisa”: “Ho bisogno di torrenti, di rocce, di abeti, di boschi neri, di sentieri impervi a salire e scendere, di precipizi intorno a me che incutano molta paura”.
Secchi Villa però non si lascia travolgere da nessuna vertigine: le Alpi sono lo scenario di un esercizio formidabile per “ossigenare” gli occhi e temprare lo spirito. E sono le montagne di casa tra cui sempre ritorna,nelle alte valli bresciane, anche per la sana competizione sportiva: lo sci al Tonale ed al Maniva, i tralicci della vecchia seggiovia del Serodine, le escursioni al laghetto sopra le Case di Viso... e’ il riallacciarsi ad una tradizione che discende dal miglior naturalismo tardo-ottocentesco nel sereno stupore davanti alle grandi montagne, col senso religioso pacificante della fatica rustica montanara che tanto travasò nel simbolismo. Poi, per lui, “salire in montagna” è diventato soprattutto sinonimo di scelta di libertà, come fu per i partigiani. A nome di Tita Secchi sono intitolati infatti una capanna a Cima Caldoline vicino al passo del Maniva e un rifugio al lago della Vacca, su uno dei sentieri della Resistenza nel gruppo dell’Adamello. Dello “zio Tita” il pittore porta il nome e di lui con fratelli e sorelle ha curato nel 2004, a sessant’anni dalla morte, l’edizione del racconto “La parete Nord”, memoria d’una scalata sull’Adamello con l’amico Gianni Bonardi; dal racconto è stato ricavato anche uno spettacolo teatrale di Viandanze. Lo zio, che si era unito alle Fiamme Verdi, guidando un suo gruppo, fu catturato dai nazifascisti il 26 agosto 1944 alla Corna Blacca fra i monti di Bagolino, torturato e rinchiuso in carcere a Brescia. Avrebbe potuto salvarsi pagando un grosso riscatto, ma chiese che valesse anche per gli altri arrestati nel rastrellamento: “O tutti o nessuno”. I nazifascisti lo fucilarono con altri cinque compagni, il 16 settembre 1944. Il nipote vuole tramandarne anche nella pittura lo spirito leale, aperto e sincero: “Non si mente lassù sulla parete Nord”.
Una pittura che scala allora le pareti della vita, senza enfasi, ma in nome d’una quotidiana decenza di vivere, senza prevaricazioni, che pur manifesta sommessamente quella lezione di azione libera e vitale, etica e conoscitiva.
Si rafforza, con la passione per le montagne delle nostre valli, la fiducia nella consistenza delle cose intorno, legate agli affetti, alle abitudini, ai riti domestici: lo studio, la chitarra Stratocaster, i libri, la poltrona, la vista dal balcone di casa... Torniamo allora anche al candore, all’approccio stupito e incantato: è questa la fiducia in un’umanità retta e semplice. nell’impianto fotografico di partenza, sempre più sintetizzato, sonda una salda struttura alle emozioni, una puntinatura forte e minuziosa come a impedire che le immagini vacillino in un’onda psichica, perché la visione meticolosa, quasi minerale, è avvolta in una malìa stregonesca e attonita, una luce radiosa e misteriosa come in una camera oscura della memoria.
Tita Secchi Villa è autodidatta, ma già alcuni anni fa si presentò inscenando con piglio sicuro un mondo di silenzi, di vecchie case isolate, alberghi e hostelleries di salda geometria, di scorci di città nordiche (d’Irlanda, d’Islanda, di Normandia, di Germania, della Scandinavia e d’arcipelaghi come le isole Faroer) luminose sul fondo della notte, o di nude, aguzze pareti rocciose e nevi perenni, cieli stellati e nuvole, dimontagne dal Salimmo al Blumone, dalla Concarena al Pisgana, dal Maniva al Castellaccio, dal Tonale al Gran Paradiso, rievocando, per le montagne, anche la pittura romantica del sublime, in una intensità stupita dei movimenti e dei fendenti della luce, magica e allucinata, che si fa introversa, favolistica nelle visioni urbane (di Brescia, compaiono anche il sottopasso di via Corsica o la Stazione e piazza Vittoria deserte sotto la neve, in incantamenti notturni da Amarcord felliniano, e non a caso c’è pure la spiaggia deserta di Miramare di Rimini), dove affiora anche una luce “filmica” di quieta malinconia che ha per capostipiti lontani Hopper e la pittura dell’American Scene del primo ‘900, e la spettrale ironia surrealista d’un impenetrabile teatro, fors’anche di incomunicabilità, ma trasognato, fantastico.
Più lo sguardo di Tita Secchi Villa s’affissa, più si fa stranito e straniante, lirico, fiabesco: da qui, una pittura più illusionistica che surreale, di enigmi vuoti di simboli, di attese vane in un ardore meridiano o in un albore lunare o boreale, nell’ora dell’arresto degli orologi, di solitudine in città addormentate illuminate dalla luce bianca.
Negli ultimi anni nella pittura di Tita Secchi Villa sono maturate demarcazioni cromatiche più nette, dai contrasti più forti, dove luce e ombra si spartiscono la scena da protagoniste. Il paesaggio urbano è ancora una quinta teatrale misteriosa, un altrove che s’acquatta nella dimensione quotidiana, le case un set, con esterni e interni che sono un evidente omaggio a Edward Hopper: ma è la consonanza con l’Hopper che diceva di essere interessato solo al “battere della luce del sole sul muro di una casa”, non certo con quello del controluce malinconico della vita comune, nell’ora spettrale del tedio.
Tita Secchi Villa nel 2003 titolava “La luce instabile” la prima mostra dei suoi lavori. Il cercare di impregnarsi di luce è desiderio di chiarità rasserenatrice, tra luminosità liquide del nord e abbacinanti scintillii tra le rocce e i prati delle Alpi. Cerca infatti una luminosità vivida (ecco il tema della luce che eterna, che incardina nei pascoli, nelle pietre e nei ghiacciai), ma come conquista e riverbero di una saggezza, di una verità morale, maturata su quel misurare le proprie forze nella sudata conquista di cui si diceva sopra, come di radici e fibre messe a nudo.
Il tono di lieve candore, di stupefatta sospensione, afferma la necessità primordiale, “fanciullesca” di sognare, di coltivare come in una favola innocente, o meglio in una laconica, ruvida dolcezza, il mistero latente nelle persone e nelle cose quotidiane: sta nel fissarsi sul paesaggio (e, in pochi casi, sulle persone in quel paesaggio, dallo zio partigiano e sportivo al padre fino al fotografo naturalista Franco Rapuzzi) per custodirle in misure nette e sobrie, giammai leziose e sentimentali: misure anch’esse morali, che le consegnano ad un’ecologia austera dello spirito.
Lo scandaglio della “misura” di solitudine tra le figure e lo spazio, inteso come spazio dell’esistenza, si carica di saturazioni liriche e trasognate, intensità consapevolmente naives o visionarie, proprio per tradurre certa sottilissima impossibilità di accedere al quotidiano, quel diaframma sottile che rende impenetrabile il mondo circostante. La sua pittura nitida, pur sempre tonale, è tanto più espressiva quanto meno dettagliata, è tanto più vera quanto meno è pedissequamente realistica.
Ciò che deve funzionare qui è l’incastro saldo di forme, lo scorrere di luci, sul sentiero di una di ricercata pulizia nell’incanta- mento (anche magico-infantile), nel rifugio verso uno stupore cristallizzato, sia nella luce accecante del giorno, sia nella luce stridente e livida nella notte. Uno stupore anche lunare, nelle stanze domestiche e nelle case e città sognate deserte di presenze umane. Ecco gli omaggi anche espliciti a Hopper, in teatrini bloccati nella cui tensione luminosa si cementa anche l’aria, ma in un sentore d’intimità che rivaluta in chiave del tutto personale, con una specifica tensione psicologica e affettiva, il senso della scena: che non è di interminabile attesa e d’incomunicabilità, ma di pacata meditazione. Certo,Tita del maestro americano assorbe il gusto per un’immagine sobria, antibarocca, e per la tensione tutta “cinematografica” che l’immagine deve esprimere, anche architettonica, geometrica. Ma lascia filtrare la sottile inquietudine di chi sente che negli spazi urbani viviamo in luoghi non del tutto nostri e che lì non siamo noi come invece siamo in mezzo agli scenari della natura. Negli scenari domestici e urbani suggerisce appena il senso della frattura del tempo, d’una verginità dell’uomo nel paesaggio ormai perduta.
E, nell’escursionista sui sentieri della montagna e sulle ciclabili del Nord Europa, possiamo cercare l’eco lontana di certo puritanesimo pionieristico, col senso duro del reale come cammino concreto, sulla strada, verso una terra promessa, propri di tanta pittura e cinema americani (e anche alle radici di certa musica country-rock: ecco la fida Stratocaster, a farci dire che non ci stupiremmo se Tita Secchi fosse stato animato in gioventù dalle inquietudini “on the road” della Beat Generation, dalle ballate cantate da Woody Guthrie fino a Bob Dylan), nel culto degli uomini semplici “in lotta” con la natura, anche solo nella disciplina del fisico e della competizione che tempra il carattere. L’artista ha scelto in partenza la sua scena come consona a una sola o a poche presenze, anche quando non entrano nell’inquadratura, ma le avvertiamo lì accanto alla tela, in una ristretta cerchia di affetti e solidarietà in gesti semplici, sane fatiche e amicizie silenti, a dire che c’è una struttura d’uomini e montagne che si scalda e rinsalda in un riverbero di luce, fisico, reale, concreto, eppure magico come un talismano, così che si fa vivido e spiritualizzato, per i semplici di cuore che cercano di dare una misura giusta, onesta e sincera, ad ogni passo e conquista, anche minima, dell’esistenza.